La fata meccanica


C’era una volta un inventore che inventava e costruiva macchine in un mondo freddo, grigio e triste.

Le sue macchine erano molto efficienti: facevano soltanto quello che dovevano fare e lo facevano bene.

Nella sua vita ne aveva costruite tante, forse troppe… così da sentirsi in colpa e voler rimediare.

Nel suo mondo c’erano forse più macchine che persone e ad un tale sovrappopolamento meccanico aveva contribuito lui stesso.

Le persone erano difettose, aveva sempre creduto da giovane. Sistemi così fragili totalmente in balia di emozioni e false convinzioni.

“Sarebbe un mondo migliore se le scelte fossero più efficienti e non si sprecasse tempo a rimediare ai propri sbagli”, pensava.

Così, nell’ultima parte della sua vita, coerente con la sua umanità si trovò a dover usare quel tempo per rimediare.

Pensò quindi che l’efficienza non è ciò che eleva il mondo e si decise ad offrire un contributo di amore e di bellezza.

Considerò che queste qualità non sono proprie della macchina e nemmeno dell’uomo, ma appartengono all’archetipo della donna.

Convintosi negli anni suoi più maturi che l’amore è la forma di magia e di trasmutazione più potente, plasmò così la materia e i suoi ferri vecchi.

Dotò la creatura di propulsori nel suo paio d’ali per distaccarsi da terra e volare alto. E di speciali sensori nei palmi delle mani: cosicché quando gli occhi non avessero visto la realtà delle cose, avesse potuto sentirla tangibile.

Collegò la batteria situata al centro del busto a dei generatori e la riempì di energia per avviarla: da quel momento in poi sarebbe stata in grado di rigenerarsi da sola.

Soddisfatto della sua opera e ormai vecchio, poté andarsene in pace da quel suo mondo freddo, grigio e triste. Gli aveva fatto dono della sua migliore invenzione: una piccola ma contagiosa luce.


colonna sonora

Ascolta La Folliadi Antonio Vivaldi.